mercoledì 18 luglio 2007

Come doveva essere......e come non è il TSO

La complessità del procedimento da attivare per ottenere un Trattamento sanitario obbligatorio per malattia mentale in condizioni di degenza ospedaliera, ha sollevato perplessità e reazioni contrastanti. In particolare ne è stata sottolineata l'eccessiva lunghezza e macchinosità, nonché la concentrazione di troppo potere decisionale nelle mani delle autorità amministrative piuttosto che in quelle dei sanitari.
Bisogna non scordare tuttavia che i numerosi oneri burocratici imposti dalla legge, riflettono la preoccupazione di evitare un ricorso sproporzionato al Trattamento sanitario obbligatorio che ne snaturerebbe la natura di extrema ratio, di strumento terapeutico attivabile soltanto quando tutti i tentativi volti ad ottenere un consenso del paziente alle cure siano falliti, e non di fronte a situazioni di urgenza, che per carenze organizzative o per incapacità dei servizi territoriali, non si è in grado di gestire diversamente. Non solo. Il legislatore ha voluto circondare tale misura di tutta una serie di garanzie, anche procedimentali, percependo i connotati del tutto peculiari di un simile intervento sanitario, volto a curare non un apparato o un organo, ma una persona nella sua interezza, i suoi comportamenti e atteggiamenti, pur sempre espressione di quelle libertà tutelate con forza dalla Costituzione. Un provvedimento dunque, il Trattamento sanitario obbligatorio, che viene ad incidere drammaticamente sulla libertà del soggetto e la cui adozione quindi non può non essere accompagnata da mille cautele ed accorgimenti. Anzi, proprio per questo è stata manifestata la preoccupazione che il ruolo del sindaco nel disporre il ricovero, soprattutto nelle grandi città, sia meramente burocratico senza che sia svolto un effettivo controllo sulla procedura, risolvendosi il tutto al riempire moduli "preconfezionati".
Strettamente connesse alla questione della complessità del procedimento di Trattamento sanitario obbligatorio, sono le critiche mosse all'assoluta brevità del periodo automatico di durata del ricovero (sette giorni), giudicata insufficiente per avviare un progetto terapeutico adeguato, col rischio che si aggredisca l'infermo con dosi massicce di psicofarmaci, per ottenere i massimi risultati nel minor tempo possibile. È vero che il sanitario responsabile del servizio psichiatrico può chiedere al sindaco una proroga motivata, ma tale richiesta fa scattare nuovamente l'articolato iter burocratico descritto nella legge. La proroga dunque richiede tempi lunghi e risulta esser vincolata più alle necessità burocratiche che a quelle terapeutiche.
In realtà le scelte del legislatore sembrano esser dettate anche questa volta dalla paura di vedere riprodotte situazioni segreganti e isolanti, anzi possiamo affermare che il ricovero di per se stesso è percepito come segregante ed emarginante.
È possibile intravedere a questo punto un elemento di contraddizione nella legge la quale, se da una parte configura l'ospedale generale in cui deve effettuarsi il ricovero non come un luogo d'internamento sostitutivo del manicomio ma soltanto come uno dei settori di intervento collegato con il territorio, dimentica forse la rigida organizzazione e l'isolamento dell'ospedale, la logica del quale rimane quella della netta separazione fra le varie divisioni che lo compongono e fra queste e la società esterna. Il pericolo quindi è quello di spostare, tradendo le intenzioni del legislatore, la centralità dell'intervento psichiatrico dal territorio all'ospedale e di configurare questo come una nuova struttura emarginante e ghettizzante.La complessità del procedimento da attivare per ottenere un Trattamento sanitario obbligatorio per malattia mentale in condizioni di degenza ospedaliera, ha sollevato perplessità e reazioni contrastanti. In particolare ne è stata sottolineata l'eccessiva lunghezza e macchinosità, nonché la concentrazione di troppo potere decisionale nelle mani delle autorità amministrative piuttosto che in quelle dei sanitari.
Bisogna non scordare tuttavia che i numerosi oneri burocratici imposti dalla legge, riflettono la preoccupazione di evitare un ricorso sproporzionato al Trattamento sanitario obbligatorio che ne snaturerebbe la natura di extrema ratio, di strumento terapeutico attivabile soltanto quando tutti i tentativi volti ad ottenere un consenso del paziente alle cure siano falliti, e non di fronte a situazioni di urgenza, che per carenze organizzative o per incapacità dei servizi territoriali, non si è in grado di gestire diversamente. Non solo. Il legislatore ha voluto circondare tale misura di tutta una serie di garanzie, anche procedimentali, percependo i connotati del tutto peculiari di un simile intervento sanitario, volto a curare non un apparato o un organo, ma una persona nella sua interezza, i suoi comportamenti e atteggiamenti, pur sempre espressione di quelle libertà tutelate con forza dalla Costituzione. Un provvedimento dunque, il Trattamento sanitario obbligatorio, che viene ad incidere drammaticamente sulla libertà del soggetto e la cui adozione quindi non può non essere accompagnata da mille cautele ed accorgimenti. Anzi, proprio per questo è stata manifestata la preoccupazione che il ruolo del sindaco nel disporre il ricovero, soprattutto nelle grandi città, sia meramente burocratico senza che sia svolto un effettivo controllo sulla procedura, risolvendosi il tutto al riempire moduli "preconfezionati" (128).
Strettamente connesse alla questione della complessità del procedimento di Trattamento sanitario obbligatorio, sono le critiche mosse all'assoluta brevità del periodo automatico di durata del ricovero (sette giorni), giudicata insufficiente per avviare un progetto terapeutico adeguato, col rischio che si aggredisca l'infermo con dosi massicce di psicofarmaci, per ottenere i massimi risultati nel minor tempo possibile. È vero che il sanitario responsabile del servizio psichiatrico può chiedere al sindaco una proroga motivata, ma tale richiesta fa scattare nuovamente l'articolato iter burocratico descritto nella legge. La proroga dunque richiede tempi lunghi e risulta esser vincolata più alle necessità burocratiche che a quelle terapeutiche.
In realtà le scelte del legislatore sembrano esser dettate anche questa volta dalla paura di vedere riprodotte situazioni segreganti e isolanti, anzi possiamo affermare che il ricovero di per se stesso è percepito come segregante ed emarginante.
È possibile intravedere a questo punto un elemento di contraddizione nella legge la quale, se da una parte configura l'ospedale generale in cui deve effettuarsi il ricovero non come un luogo d'internamento sostitutivo del manicomio ma soltanto come uno dei settori di intervento collegato con il territorio, dimentica forse la rigida organizzazione e l'isolamento dell'ospedale, la logica del quale rimane quella della netta separazione fra le varie divisioni che lo compongono e fra queste e la società esterna. Il pericolo quindi è quello di spostare, tradendo le intenzioni del legislatore, la centralità dell'intervento psichiatrico dal territorio all'ospedale e di configurare questo come una nuova struttura emarginante e ghettizzante.

requisiti per dipsorre un TSO

Devono essere tre e ricorrere tutti contemporaneamente:
1) necessità urgente di cure psichiatriche;
2) rifiuto di sottoporsi a trttamenti sanitari;
3) presenza di alterazioni psichiatriche

Chi ha subito un TSO può avere un risarcimento?

La risposta è si, preliminarmente sarà necessario far annullare dal Tribunale Civile l'ordinanza del Sindaco che ha disposto il TSO e, una volta revocato il provvedimento sindacale, sarà lecito chiedere un risarcimento del danno patito per il sofferto periodo di ricovero coatto.
Sul punto vi è già una sentenza del Tribunale di Venezia e altre ne arriveranno essendo molteplici le cause intentate per uqesto motivo.
Teniamo conto che il provvedimento del Sindaco 99 volte su 100 è nullo per vizio di forma.
Ci si può rivolgere ad un legale, ma la legge consente la possibilità di rappresentarsi personalmente (o mediante parenti, amici e/o chi abbia interesse).